Carmagnola, 5 marzo 2019

Alla cortese attenzione delle:
Commissioni riunite XI Lavoro e XII Affari sociali della Camera dei Deputati

Oggetto: proposta di emendamenti al disegno di legge C. 1637 Governo, approvato dal Senato, recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”.

Preg.mi Onorevoli,

dagli interventi al Senato dei diversi esponenti della compagine Governativa emerge con preoccupante evidenza di come la tutela lavorativa è concepita lecita soprattutto per i cittadini in condizione di “produttività”, mentre deve essere trattato A PARTE chi non è:” propriamente produttivo” e/o lo potrebbe diventare, in parte minimale, a fronte di costi troppo elevati che l’attuale contingenza economica non può permettersi.

Il compito dello Stato, espresso chiaramente nella discussione in Senato è, quindi, quello di “agevolare” la famiglia nella preziosissima opera di ammortizzare quella “stonatura redditiva” creata dalla “divers…abilità”.

Prendiamo atto della precisa volontà politica di limitare l’accesso al Reddito di Cittadinanza ai nuclei familiari che hanno, fra i loro componenti, anche delle Persone con disabilità.

La Persona con disabilità in Italia è ormai definitivamente da considerare come un “affare di famiglia”, il cui compito prioritario è quello di prendersene cura, vicariando lo Stato, attraverso la “custodia nel proprio focolare”. Persone (…) troppo scomode che impattano sfavorevolmente nella collettività già impegnata con molta difficoltà nel produrre ricchezza per il Paese.

Che restino quindi comodamente riposte tra gli affetti di casa, per chi ce l’ha, con i propri congiunti, se presenti, inderogabilmente designati al “lavoro di cura”. La loro presenza è accettata nei giardini pubblici o nelle comunità “border line”, nelle scuole pubbliche di frontiera o assemblate nei centri residenziali diurni, meglio ancora se a tempo pieno. Lontani però dai luoghi destinati alla produttività economica e con buona pace dei buoni principi di inclusione tanto decantati nei comizi e talk show elettorali.

Corre l’obbligo ancora una volta di rammentare al Governo come sia definita nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, una LEGGE dello Stato, il concetto della discriminazione di una intera categoria di cittadini.

La Costituzione Italiana inoltre chiarisce in più di un suo articolo, e prescrive, nell’ Art.3 senza possibilità di fantasiose interpretazioni alternative, che il DOVERE dello Stato non è quello di “agevolare” una disparità tra cittadini di diverse condizioni, ufficializzando come sostituti di quegli stessi doveri i loro nuclei famigliari, ma di operare per “rimuovere”, quindi eliminare: ”gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di TUTTI i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Nell’art.2 il concetto è ancora più esplicito quando “richiede allo Stato l’adempimento dei doveri inderogabili (INDEROGABILI!) di solidarietà politica, economica e sociale.”

Ancor di più: si considera “discriminazione diretta”, ex Lege 85/2008, “ogni procedimento condizionato da situazioni per le quali la persona viene messa o potrebbe venir messa in una posizione meno favorevole rispetto ad un’altra, in una situazione paragonabile.”

Ed è proprio questo che avviene indiscutibilmente quando in un disegno di legge si prevede esplicitamente, per l’accesso al beneficio del Reddito di Cittadinanza, di “concorrere cumulativamente a diversi requisiti” che considerano una ricchezza del nucleo familiare quei supporti economici, peraltro notoriamente insufficienti e RESIDUALI, erogati per attenuare lo svantaggio della disabilità.

Quindi, a parità di condizioni reddituali, una famiglia – che ha il torto grave di avere tra i suoi membri una o più persone con disabilità – avrà accesso ad un sostegno inferiore rispetto ad una famiglia che NON ha disabili tra i suoi componenti, subendo di fatto una indiscutibile discriminazione diretta.

Ancor di più sarà evidente la discriminazione per quelle stesse famiglie che, per effetto della presenza di un maggior numero di persone con disabilità e necessità assistenziali a causa di condizione di gravità, percepiscono erogazioni monetarie e sociali maggiori.

E ciò varrà anche per le singole persone con gravi disabilità che con enormi difficoltà tentano di vivere in modo indipendente nella collettività per mezzo di risicati e discontinui finanziamenti dedicati per la loro assistenza personale, considerati nella parte non rendicontabile come un reddito!

La Convenzione Onu fin nel preambolo sancisce, invece, la necessità di “promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, incluse quelle che richiedono sostegni più intensi (…) riconoscendone l’urgente necessità di affrontare l’impatto negativo della povertà e la parità di opportunità”.

Nella discussione al Senato si è affermato che la Sentenza del Tar 2549/2015 e quella definitiva del Consiglio di Stato 842/2016 riguarda solo l’ISEE.

Questa è una interpretazione profondamente errata.

Il Consiglio di Stato ha infatti ben chiarito che considerare tra i requisiti di accesso ad un qualsiasi beneficio “i trattamenti…percepiti dai disabili considerando la disabilità alla stregua di una fonte di reddito -come se fosse un lavoro o un patrimonio- ed i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni, non un sostegno al disabile, ma una “remunerazione” del suo stato di invalidità… (non solo) è oltremodo irragionevole … (ma) … in contrasto con l’art. 3 della Costituzione…».

Pare assurdo dover SEMPRE ricordare, in una Nazione Democratica come la nostra, che ciò che viene erogato per supportare lo svantaggio della disabilità NON può in alcun modo trasformarsi in un vantaggio!!

Questo concetto, così ben chiarito nella Sentenza del Consiglio di Stato, presuppone non solo quanto sia in contrasto con tutto il nostro ordinamento trattare lo svantaggio – la mancanza di pari dignità e disuguaglianza dovuta a “condizioni personali e sociali” causati dalla disabilità – come un vantaggio reddituale, ma chiarisce altresì come occorra prevenire proprio quell’impoverimento reddituale attraverso una o più scale di equivalenza.

Vorremmo infatti anche rammentare che esiste già un presupposto di iniquità della stessa scala d’equivalenza fissa, utilizzata nell’attuale computo ISEE per segnalare la condizione di disabilità, che fu introdotta con un emendamento, posto a fiducia, dal precedente Governo Renzi, nel DL 42/2016 – Disposizioni urgenti in materia di funzionalità del sistema scolastico e della ricerca” e senza alcuna adeguata discussione parlamentare.

Tale scala d’equivalenza fissa fu arbitrariamente posta in sostituzione (quindi NON in ottemperanza alla Sentenza del Consiglio di Stato) delle più adeguate e proporzionate franchigie parametrate alle differenti condizioni di maggiore o minore necessità assistenziali legate alla disabilità – che non è uguale per tutti –.

Quella scala d’equivalenza così rigidamente concepita, ha finito di fatto per favorire proprio quei nuclei familiari con i redditi più alti e non già le famiglie maggiormente gravate da un intenso disagio economico prodotto da più elevate necessità assistenziali.

In conclusione si sottolinea, quindi, ciò che dovrebbe essere il dovere di uno Stato Civile, ovvero la prioritaria finalità di produrre uguaglianza e pari opportunità per TUTTI i cittadini e non invece di ratificare la profonda disuguaglianza creata da un costante abbandono istituzionale e sulla illusione di un cambiamento favorevole che, nella pratica, si trasforma in emarginazione ulteriore.

Reiteriamo perciò la richiesta di modifica del comma 7 dell’articolo 2, escludendo dall’accesso al beneficio il computo di ogni supporto erogato per la disabilità e chiediamo altresì di introdurre, nel comma 4 Art. 2, la scala d’equivalenza che segnali la presenza nel nucleo familiare di un globale impegno economico nel “mantenere” la disabilità di un congiunto, graduandola in base al maggiore impegno tra disabilità lieve, media e non autosufficienza (0,4 per la disabilità lieve, 0,5 per la disabilità media e 0,7 per la non autosufficienza).

Il diritto di pari opportunità dell’individuo rappresenta lo scopo, la sintesi, di ogni trattato che ne sancisce i Diritti Umani. Ed è in questo principio che, una politica che si propone come cambiamento verso una maggiore giustizia sociale dove “nessuno deve più rimanere indietro”, dovrebbe veicolare le proprie energie nel garantire a tutti i cittadini il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza.

Il Diritto di scegliere come vivere la propria vita, dunque, come cittadino libero in un libero Stato.

Per ENIL Italia, il Presidente: Germano Tosi

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