Commento all’l-ter legge 162/98

Commento all’articolo l-ter della Legge 21 maggio 1998 n.162

Nel maggio 1998 il Parlamento ha approvato la legge 162, che modifica e aggiorna alcune parti della legge 104 del 1992, la cosiddetta “legge quadro” sull’handicap.

E’ la prima volta che in una legge nazionale italiana si parla della “Vita Indipendente”, e lo si fa legando tale termine a quanto andiamo sostenendo essere chiave per una reale Vita Indipendente fin dalla costituzione di ENIL Italia, cioè l’assistenza personale pagata con fondi gestiti dalla stessa persona con disabilità che utilizza questo servizio.

L’approvazione della parte della legge 162 che riguarda la Vita Indipendente sembra quindi una tappa fondamentale dopo circa dieci anni di intenso lavoro. ENIL Italia è infatti stata costituita nel 1991 ma i primi tentativi di portare in Italia i concetti e le idee innovative del movimento per la Vita Indipendente risalgono quantomeno al 1989.

Su questi concetti abbiamo fondato tutto il lavoro di ENIL Italia, e possiamo dirci soddisfatti dal fatto che il linguaggio che abbiamo proposto e gli argomenti su cui abbiamo puntato siano diventati patrimonio comune per molti, persone e organizzazioni, pur con le inevitabili differenze dovute a diverse culture e diverse “sensibilità”.

Purtroppo capita che queste differenze non abbiano solide basi teoriche o tecniche, e realizzino soltanto le esigenze di un posto al sole e di voce in capitolo per chi le propone.

La legge 162 contiene diverse novità, ma in questo scritto viene trattato solamente il cosiddetto articolo l-ter. Eccolo:

 

1- ter) a disciplinare, allo scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente alle persone con disabilità permanente e grave limitazione dell’autonomia personale nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita, non superabili mediante ausili tecnici, le modalità di realizzazione di programmi di aiuto alla persona, gestiti in forma indiretta, anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta, con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia.

 

Per comprendere bene come considerare questo articolo di legge e come ottenerne il massimo in fase di applicazione sarà bene iniziare con una per quanto possibile accurata analisi del testo.

 

Il diritto ad una Vita Indipendente

Innanzitutto “garantire il diritto ad una Vita Indipendente” è un passo enorme nella legislazione nazionale sulla disabilità. Nella frase citata è però insito un grande rischio: noi abbiamo bene in mente il significato di “Vita Indipendente”-, altri no. Il rischio è che il termine “Vita Indipendente” venga considerato una dichiarazione di intenti, qualche cosa di vago e indefinito, e quindi di nessun valore o quasi. Nostro compito è invece affermare e far prevalere in ogni sede possibile un altro punto di vista, il nostro punto di vista, e cioè che “Vita Indipendente” è un termine tecnico che corrisponde a metodi e obiettivi ben precisi e che il suo significato non può e non deve essere eluso o minimizzato. Questo è un obiettivo importante poiché sono già in circolazione idee e proposte che usano l’etichetta “Vita Indipendente” e che con questa filosofia hanno ben poco a che fare. Ad esempio una organizzazione di persone con disabilità ha presentato una proposta di legge regionale applicativa della legge 162/98 secondo la quale chi vuole accedere ai fondi per la “Vita Indipendente” deve vivere da solo o con una famiglia diversa da quella di origine. Mi chiedo in cosa consista l’indipendenza di chi non può neppure decidere con chi abitare! Un altro esempio dell’uso improprio del termine Vita Indipendente è contenuto in un progetto di “Centro diurno per portatori di handicap e disabili” che dovrebbe garantire qualche ora di respiro per le famiglie, e che viene appunto per questo definito come progetto per la Vita Indipendente. Domanda retorica: chiudere le persone in una struttura, seguite da “animatori” ed “educatori” vi sembra che abbia a che fare con la loro autodeterminazione e con la loro libertà?

Fortunatamente l’articolo I-ter contiene già una importantissima precisazione che gli conferisce una coerenza di fondo con i concetti della Vita Indipendente ed è quella che ricordavo all’inizio: la Vita Indipendente nell’articolo l-ter si concretizza nei servizi di aiuto alla persona gestiti in forma indiretta. Questo è “il” punto di forza di questo articolo e di questo dovremo pretendere l’applicazione puntuale e completa.

 

Persone con disabilità

Poi il testo della legge prosegue con: “persone con disabilità permanente e grave limitazione dell’autonomia personale” anche questi termini, che noi conosciamo bene, sono innovativi nella legislazione italiana, che ha sempre parlato di “inabili”, “invalidi”, “minorati”, e da ultimo “portatori di handicap” e “persone handicappate”. C’è la strana precisazione del “permanente” che presumo tenda ad escludere le persone che hanno delle disabilità temporanee, ma perché poi? Non hanno anch’esse diritto di vivere? Se una persona, ad esempio, subisce delle fratture che per un tempo limitato – alcuni mesi – limitano o impediscono del tutto l’autosufficienza, che deve fare, morire di fame o accettare una ospedalizzazione costosa e comunque non necessaria? Non a caso l’articolo 9 della legge 104/92 parla anche di limitazione temporanea dell’autonomia personale; lo trascrivo:

 

Art. 9 Servizio di aiuto personale. I. Il servizio di aiuto personale, che può essere istituito dai comuni o dalle unità sanitarie locali nei limiti delle proprie ordinarie risorse di bilancio, è diretto ai cittadini in temporanea o permanente grave limitazione dell’autonomia personale non superabile attraverso la fornitura di sussidi tecnici, informatici, protesi o altre.forme di sostegno rivolte a facilitare l’autosufficienza e le possibilità di integrazione dei cittadini stessi, e comprende il servizio di interpretariato per i cittadini non udenti.

 

In ogni caso ritengo importante che la parola “permanente” non venga considerata sinonimo di “stabilizzata” e quindi comprenda anche le disabilità evolutive, causate da malattie progressive come la sclerosi multipla o la distrofia muscolare. D’altronde questo è già affermato nel primo comma dell’articolo 3 della legge 104/92. Eccolo:

 

Art. 3 Soggetti aventi diritto. I. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.

 

Se le parole sono una cosa seria e hanno riferimenti scientifici precisi, bisogna guardarsi dall’uso inappropriato e fantasioso di parole come il “diversamente abili” contenuto in un disegno di legge presentato in Parlamento. che prevede che in tutta la legislazione italiana, dove si utilizzano i termini sopra citati, questi vengano sostituiti con il “diversamente abili”, contratto in “diversabili”. A me questo sembra poco serio: insistere sulla distinzione e separazione fra la persona e le sua situazione di disabilità, al punto che tale disabilità debba perfino scomparire dal lessico non aiuta certo a costruire progetti efficaci nel superamento dell’handicap (handicap che la società impone a chi ha delle disabilità). Secondo me il “diversabile” non è neppure un eufemismo, è solo una parola senza sostanza. Ricordo che il termine che noi proponiamo da anni: “Persona con disabilità” deriva direttamente dalle definizioni OMS (Organizzazione mondiale della Sanità, organismo delle Nazioni Unite) su menomazione, disabilità ed handicap, e che ciascuna di queste definizioni ha un significato tecnico ben preciso.

Anche le parole successive dell’articolo l-ter: “la grave limitazione dell’autonoMia personale” richiedono una precisazione: il termine “autonomia” viene usato correntemente nell’ambito della riabilitazione con un significato assai diverso rispetto a quello che la parola significa nella sua letteralità; autonomia deriva da due parole in lingua greca: autòs”, che significa “da soli” e “nòrnos”, che significa norma, legge. Quindi il termine autonomia non vuol dire “fare le cose da sé”, bensì “darsi da soli le proprie leggi”. In filosofia il termine autonomia viene spiegato così: “il potere dello spirito di dare a se stesso la propria legge” e della parola autonomia il dizionario Devoto-Oli dà la seguente descrizione: “La posizione giuridica di uno stato che si governa con leggi proprie, o anche di enti o persone nella cui sfera di attività non vi sia ingerenza da parte di altri”. In questo senso, anche secondo lo stesso dizionario, la parola indipendenza è una estensione dell’autonomia, e significa: libertà riconosciuta nell’ambito delle proprie decisioni”. Quindi il legislatore avrebbe fatto meglio a scrivere “autosufficienza” anziché autonomia, oltre tutto senza l’aggiunta del pleonastico “personale”.

Perché insisto tanto con la terminologia e la sua precisione? Perché la precisione ci aiuta a definire meglio le situazioni e le necessità, ed è indispensabile a far comprendere al nostri interlocutori quanto sia infido e stretto il passaggio fra lo Scilla e il Cariddi del becero e mortificante assistenzialismo e l’abbandono ad un improbabile “Fai da te”, e quanto sia difficile superare questo stretto per giungere nel mare aperto della libertà.

 

Le funzioni essenziali della vita

Accogliamo dunque con soddisfazione l’innovazione nel lessico introdotta dall’articolo l-ter, ma anche qui dobbiamo fare attenzione perché la disabilità permanente e la grave limitazione nell’autonomia sono legate ad una precisazione, e cioè: “nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita”. Questa precisazione a mio avviso non solo è inutile, ma è anche pericolosa perché può rivelarsi una strettoia troppo angusta. Definire le funzioni essenziali della vita non è infatti cosa così semplice, e dobbiamo evitare che questa definizione riduca la vita a sopravvivenza. Purtroppo dagli ambienti delle associazioni di persone con disabilità (ma non certamente da ENIL Italia) sono stati ideati dei tentativi di classificazione, a mio parere riduttivi, per definire le funzioni essenziali della vita; eccoli:

 

  • deficit intellettivo grave, che comporti un grave ritardo mentale contestuale a gravi difficoltà di apprendimento;
  • impossibilità alla deambulazione;
  • impossibilità a mantenere il controllo sfinterico;
  • impossibilità – se di età superiore ai 18 anni – alla assunzione di cibo o al lavarsi o al vestirsi.

 

Se il legislatore accettasse questa proposta, magari in una interpretazione restrittiva, e non comprendesse nelle funzioni essenziali della vita anche il poter vivere la propria esistenza in modo autodeterminato, da un canto deriverebbe l’esclusione di molte persone dal legittimo diritto all’intervento di sostegno, e dall’altro il rischio che l’intervento potrebbe essere “di autorità” limitato al sopperire, laddove possibile, soltanto alle funzioni essenziali sopra dette. Certo è un aiuto indispensabile per chi ne ha necessità, ma limitare l’intervento alla sopravvivenza è un intervento lontanissimo dalle enunciazioni del movimento internazionale per la Vita Indipendente. Secondo me le “funzioni essenziali della vita” dovrebbero essere in qualche modo correlate ai diritti umani, civili economici e politici che la Repubblica riconosce avendo sottoscritto le relative convenzioni internazionali, e ai diritti che la Costituzione italiana definisce “inviolabili”.

 

Gli ausiti tecnici

Nel testo c’è un’ulteriore precisazione a proposito della disabilità permanente: “non superabili mediante ausili tecnici”. Occorre intendersi: “non superabili” può venire interpretato in molti modi e, nel fare talune scelte, è necessaria una grande ragionevolezza, (la ragionevolezza è per altro di per sé concetto non semplicissimo nel campo del diritto). Quand’è che una funzione diventa “superabile” mediante ausili tecnici? Quando ciò sia tecnicamente possibile, a prescindere dal tempo e dalle difficoltà pratiche, oppure quando l’ausilio renda possibile svolgere certe funzioni almeno nello stesso tempo e impiegando le stesse energie che dovrebbero venire spese se il lavoro venisse fatto con l’utilizzo di un assistente personale? Ovviamente propendiamo per la seconda opzione, e dovremo essere molto attenti a che questa sia l’interpretazione accettata in sede di applicazione della norma. Qualora questa valutazione non sia possibile, secondo me l’unico criterio realistico nella scelta fra l’uso di un ausilio e di un assistente personale per svolgere una particolare funzione sta nella scelta della persona con disabilità.

Ci sono persone che sono disposte ad utilizzare ausili anche se questo comporta maggiori difficoltà pratiche perché preferiscono fare da soli il maggior numero possibile di cose, e, al contrario, ci sono persone che vogliono ottimizzare al massimo il loro tempo e quindi hanno l’esigenza di ottenere l’aiuto di volta in volta più efficiente. Un solo esempio, forse il più provocatorio, vista la visione “risolutiva e salvifica” che i non addetti ai lavori hanno dell’informatica nel contesto handicap: per una persona con grave disabilità scrivere una lettera al computer può essere un lavoro davvero lungo e faticoso, anche se oggi vi sono programmi e dispositivi che aiutano notevolmente in questa attività. D’altra parte un assistente personale può scrivere “sotto dettatura” in modo quasi sempre più veloce e preciso. Allora la scelta del “concedere” l’uso di un assistente personale non deve essere legata solo al fatto che con un computer adattato sia possibile scrivere una lettera, ma anche a quali condizioni si costringa chi non vuole utilizzare tale ausilio, ma è costretto ad utilizzarlo perché non gli vengono offerte alternative.

 

Le modalità di realizzazione

Dopo che il testo di legge ha descritto i soggetti che hanno diritto agli interventi previsti, inizia la parte che riguarda il dispositivo. Incontriamo subito le prime difficoltà interpretative di fronte alla frase: “le modalità di realizzazione di programmi di aiuto alla persona”: potrebbe voler dire che esiste la necessità di disciplinare i passaggi amministrativi: la persona con disabilità presenta la sua domanda, ad esempio presso il suo Comune di residenza, tale domanda viene valutata da appositi uffici in una fase di istruttoria, viene infine inserita in una graduatoria o in un elenco in base a criteri prestabiliti e alla persona viene data una risposta positiva o negativa, con la necessaria attenzione, in caso di risposta negativa, a far salva la possibilità di ricorso a livelli superiori di decisione, fino all’attivazione di procedure giurisdizionali.

Più avanti nel testo si parla dei progetti personalizzati, e dei vantaggi e degli svantaggi che questi possono comportare: se la persona con disabilità non richiede (o non presenta) un piano personalizzato, e si limita ad una generica domanda per ottenere un congruo numero di ore di assistenza personale, quale potrebbe essere il percorso dell’istruttoria e quali i criteri per arrivare ad una scelta, stante l’esiguità dei fondi per il momento disponibili, quali le richieste da soddisfare e quali no? Una risposta potrebbe venire proprio da quelli che la legge definisce “programmi di aiuto alla persona”. E non è detto che tale risposta sarebbe ben accolta dalle persone con disabilità. Infatti programma significa di solito standardizzazione e classificazione. Abbiamo visto e stiamo ancora vedendo quali e quanti danni possano fare le velleità di classificazione. Ad esempio nella procedura per il riconoscimento della “invalidità” a fini pensionistici. Ad esempio nelle inefficaci procedure, oggi forse superate, per l’inserimento lavorativo. Ad esempio con la famigerata circolare 148 con cui il ministero dei Trasporti intendeva “regolare” la questione degli adattamenti ai veicoli per consentire la guida da parte di persone con le più diverse disabilità.

Siccome a dover “disciplinare” sono le Regioni e le Province autonome, culture diverse e diversi orientamenti politici probabilmente avranno l’effetto di far interpretare questa norma in modo molto diverso. Un compito impegnativo che ciascuno si deve assumere è intervenire per quanto possibile presso gli Enti competenti per territorio e fare in modo di far prevalere le esigenze delle persone con disabilità rispetto alle pretese “programmatorie” e “classificatorie” degli Enti stessi. Le tabelle e i progetti “standard” rendono la vita più facile a chi deve decidere, ma spesso hanno effetti paradossali e tragici sulla vita delle persone.

 

Gestiti in forma indiretta

Questo è il secondo grande punto di forza di questo articolo di legge: il diritto ad una Vita Indipendente si concretizza con l’autogestione dei fondi necessari per pagare gli assistenti personali (quello che in tutti gli altri Paesi si chiama “pagamento diretto” in Italia diventa “gestione in forma indiretta”. Questo è dovuto al fatto che viviamo in uno Stato in cui il centro (autonominatosi tale, e spesso autoreferenziale) non è la persona, il cittadino, bensì l’apparato burocratico. Quindi per la Legge le cose organizzate e gestite dallo Stato sono quelle dirette, mentre tutto ciò che è al di fuori del diretto controllo della Pubblica Amministrazione diventa esterno, indiretto, altro. Occorrerebbe un bel salto culturale per mettere le cose al posto giusto. In ogni caso, a prescindere dal termine usato, il riconoscimento della possibilità di una forma alternativa di gestione delle spese per l’assistenza è un risultato formidabile, soprattutto perché riconosce implicitamente alle persone con grave disabilità il diritto e la capacità di gestire al meglio la loro vita. Di questo occorre fare tesoro, bisogna difendere questo riconoscimento da ogni tentativo di riassorbimento nella prassi corrente. Anche perché di tali tentativi si sente già parlare: c’è chi dice che la persona con disabilità può sì scegliere l’assistente, ma solo fra quelli che il Comune o la AsI hanno nel proprio organico; c’è chi dice che la gestione indiretta è “migliore” se fatta attraverso una agenzia perché non è “opportuno” che il denaro sia nelle mani di persone con disabilità. Sono idee e proposte vecchie, irrispettose, tese a conservare quanto più potere (e denaro) possibile nelle mani dei soliti noti, e fondate comunque sul pregiudizio negativo rispetto alle potenzialità e capacità di scelta che hanno le persone con disabilità. Quando poi queste idee e queste proposte vengono da associazioni di persone con disabilità, e quando chi pur avendo gravi disabilità e avendo egli stesso necessità di assistenza personale, disserta sulla incapacità (presunta) o disonestà (presunta) di altre persone con disabilità, siamo a dei livelli di desolazione difficili da emulare.

Questi episodi richiedono una risposta forte e nitida da parte di tutti coloro che hanno a cuore la libertà e il diritto delle persone con disabilità. Per un momento, quindi, se mi si concede questo gioco di parole, rispetto a questa legge occorre passare dal suo testo al suo contesto. Gli episodi sopra citati confermano che in Italia spesso i conservatori più accaniti sono le stesse persone con disabilità, allevate in una cultura da sudditi, addestrate nella lotta fra poveri a strappare al “potente” di turno la promessa di una briciola in più rispetto al vicino, o a scavarsi una nicchia più comoda e garantita. Non si rendono conto di quanto poco hanno e non sperano in altro che in briciole e nicchie, timorose di ogni cambiamento che potrebbe mettere a rischio il loro piccolo potere e la loro presunta sicurezza, incapaci di progetto, di idee, forse dell’idea stessa di libertà.

Altri attori del contesto, invece, pongono il problema sotto un aspetto ideologico: sono per definizione contrari alla “monetizzazione”. Pur consapevoli che i servizi di assistenza organizzati dai Comuni e magari affidati in convenzione alle cooperative non vivono certo d’aria, e che in quegli ambiti i furti, gli sprechi e le sopraffazioni sono all’ordine del giorno (come ammettono gli stessi responsabili di quei servizi), ritengono comunque che il denaro dato alle cooperative sia “buono” mentre quello dato alle persone sia “cattivo”. Ritengono che lo Stato si debba assumere delle dirette e fattive responsabilità e che le persone in difficoltà non debbano essere lasciate sole”.

Quello che in questi anni ENIL Italia si è sforzata di dire, evidentemente poco compresa, è che ciò che conta è la libertà di scelta delle persone con disabilità. Ci sarà chi vuole gestire senza intermediari la propria vita e quindi utilizzerà le tecniche e i concetti della Vita Indipendente, e chi preferirà una vita più “sernplice” lasciando ad altri il compito di organizzare i servizi di cui ha necessità. I due sistemi non sono in contraddizione e possono benissimo coesistere. Il problema è che spesso le posizioni ideologiche somigliano a precetti religiosi, per cui alle persone che di queste posizioni si fanno portabandiera non basta comportarsi secondo le regole e la morale della loro “fede”, ma sentono l’esigenza di guidare e se possibile obbligare anche gli altri sulla “giusta” via da loro indicata. E’ insomma il discorso di chi trasforma immediatamente un legittimo punto di vista del: “io non lo farei” con un inaccettabile imposizione del: “tu non lo devi fare”.

Inoltre una parola va spesa sul tabù della assunzione quali assistenti personali dei propri famigliari. Secondo il movimento per la Vita Indipendente questo non è auspicabile, però non deve assolutamente essere proibito, come alcuni vorrebbero fare. Infatti oggi si scarica sulle famiglie e di solito su madri, mogli e sorelle l’onere dell’assistenza non solo non pagata, ma distruttiva delle prospettive di vita di quel famigliare, che non può evidentemente lavorare, che non potrà avere una pensione dignitosa, e di cui si sfrutta il lavoro gratuito giocando sul ricatto dell’amore che questi porta per la persona con disabilità. A questo punto, se non vi sono soluzioni migliori, è meglio superare l’ipocrisia e riconoscere alla persona con disabilità la possibilità di assumerlo, quel famigliare, garantendogli almeno un minimo di indipendenza economica e una dignità sociale per l’attività che svolge.

Occorre anche dire qualcosa sulle proposte che alcuni fanno: quelle sulla deducibilità delle spese per l’assistenza. Secondo me sono proposte pericolose e per certi versi inaccettabili. Intanto perché le persone con disabilità hanno mediamente un reddito molto basso e quindi non si comprende come potrebbero dedurre da questo reddito la spesa per l’assistenza, spesa che può essere piuttosto alta, ed è tanto più alta tanto più è grave la disabilità, e di solito proprio chi ha la disabilità più grave ha anche il reddito più basso. Un circuito infernale. In secondo luogo perché la prima obiezione che ci si sente fare all’argomento di cui ho detto, è che la deducibilità va ricondotta al reddito famigliare. Il che significa ancora una volta legare la vita della persona con disabilità alla propria famiglia. Cioè ancora una volta “scaricare” sulla famiglia l’onere dell’assistenza. Infine perché se le spese per l’assistenza sono deducibili, l’altra faccia della medaglia è che il denaro che si ottiene per pagarsi l’assistenza costituisce reddito, cosa evidentemente assurda. Il finanziamento delle spese per l’assistenza personale deve avere lo status giuridico che oggi ha l’indennità di accompagnamento: deve cioè non essere legato al reddito, né personale né famigliare, e non deve costituire reddito.

 

Anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta

Come ho scritto sopra, nella parte che riguarda le modalità di realizzazione dei progetti, uno dei rischi è quello della classificazione. La legge sembra offrire una soluzione per evitare questo rischio, e tale possibilità consiste del poter “fare richiesta” di un piano personalizzato. La frase secondo me è un po’ ambigua, e avrei preferito che i soggetti potessero “presentare” un piano personalizzato, poiché non è chiaro che cosa significhi “fare richiesta” di tale piano. Significa forse che il piano personalizzato viene redatto dagli “esperti”? Significa forse che la persona con disabilità “partecipa” alla stesura di detto piano? “Presentare” un piano personalizzato è l’interpretazione che intendo promuovere, però anche qualora questa fosse accettata, nella stesura di un piano personalizzato leggo pericoli di peso non inferiore a quelli derivanti dalla classificazione. In questo caso secondo me il rischio maggiore è quello di una strisciante induzione o autoinduzione all’omologazione. Vita Indipendente, l’abbiamo detto molte volte, è vivere ciascuno a proprio modo, con il proprio stile, i propri obiettivi, i propri “valori”. E’ vivere proprio come le persone che non hanno disabilità, poter fare i loro stessi errori, poter crescere e imparare anche grazie a quegli errori. Significa anche, ad esempio, fare scelte di vita non condivise dalla maggioranza che detta la morale corrente. Quindi mi chiedo quanto debba essere “dettagliato” il piano personalizzato previsto dall’articolo l-ter. Secondo me l’unico piano che garantisca libertà di scelta alle persone con disabilità si riduce a due parole scritte con caratteri ben marcati: “Voglio vivere!”.

Ogni dettaglio aggiuntivo che non si limiti a dire di quante ore di assistenza una persona abbia bisogno, rischia di costituire una “prova a carico” che può essere usata nel processo decisionale, secondo la migliore tradizione del mondo giuridico anglosassone: “Puoi rimanere in silenzio, ma se parli ogni cosa che dirai potrà essere usata contro di te in tribunale”. Infatti dichiarare nel proprio progetto personalizzato obiettivi diversi da quelli ritenuti tradizionalmente “sani” (studio, lavoro, etc.) susciterebbe negli uffici preposti a decidere su queste domande delle reazioni diverse in base a fattori del tutto imprevedibili. Non credo infatti che “neutralità” e rispetto delle scelte individuali siano le maggiori qualità, ad esempio, di assistenti sociali e personale sociosanitario o amministrativo. Quindi per le persone con disabilità diventerebbe esplicito ed imperativo preparare e discutere progetti “accettabili”, tutti tesi al valore della “integrazione sociale” che come ENIL Italia e come movimento per la Vita Indipendente non abbiamo mai ritenuto essere fra gli obiettivi principali. Ecco quindi il rischio di omologazione indotta: “Questo progetto non va bene, se vuole che le finanziamo l’assistenza deve cambiare i suoi obiettivi”, sia di omologazione autoindotta: “Se faccio un progetto «diverso» non verrà accettato e quindi pur di ottenere l’assistenza che mi serve adeguo i miei obiettivi e lascio perdere i miei reali desideri”. Infine, come notazione di carattere generale, se una persona deve “discutere” con altri delle proprie scelte di vita si viola il suo diritto alla privacy, diritto per altro garantito da una legge.

Su questi aspetti mi sembra corretta, come esempio, l’impostazione spesso citata da Raffaello Belli sulla guida delle autovetture: “insegnare a guidare non deve diventare un alibi per indagare sul dove una persona poi andrà con la sua macchina”.

Con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia

Il diritto alla privacy entra di prepotenza in gioco anche nelle ultime parole dell’articolo l-ter, dove si fa riferimento al fatto che i servizi di aiuto alla persona finanziati da questa legge devono essere verificati sia per quanto riguarda l’effettiva erogazione delle prestazioni, sia per quanto riguarda la loro efficacia. La necessità di rendicontazione sul denaro impiegato per pagare gli assistenti personali è probabilmente ragionevole solo a partire da cifre di una certa consistenza. Infatti tenere una contabilità e documentazione fiscale costa e se la cifra stanziata per i servizi è piccola, potrebbe paradossalmente non coprire neppure le spese di una rendicontazione giuridicamente riconosciuta. Anche in base a esperienze fatte in altri Paesi, nel caso in cui il budget lo consenta, la migliore rendicontazione si ottiene con una tenuta regolare dei libri paga e dei versamenti dei conseguenti contributi di previdenza e assicurazione obbligatorie. Tuttavia, al fine di evitare per quanto possibile disagi e spole fra gli uffici, la migliore soluzione secondo me consiste in una autocertificazione come atto principale di rendicontazione ordinaria, e in successivi eventuali controlli sulla documentazione depositata e conservata per un numero congruo di anni presso l’abitazione della persona con disabilità, o presso uno studio professionale o un’agenzia di servizi.

Per quanto riguarda invece la verifica dell’efficacia dei servizi attivati, l’unico strumento praticabile e rispettoso della privacy è una dichiarazione di gradimento rilasciata dalla stessa persona con disabilità che utilizza gli assistenti personali. D’altronde, se questa persona non fosse soddisfatta della soluzione adottata, prima cercherebbe di risolvere i problemi e poi, nel caso non le riuscisse, rinuncerebbe alla gestione “indiretta” per rientrare come utente nel servizi organizzati dalle cooperative o dagli enti pubblici a ciò deputati. Dunque non si vedono ragioni così impellenti della verifica da richiedere impegni gravosi e quindi vessatori per le persone con disabilità, né particolari esigenze che possano giustificare la violazione della privacy o addirittura l’intrusione e il condizionamento delle personali scelte di vita, se non “ragioni” dettate da pregiudizio, e quindi da respingere in modo altrettanto pregiudiziale.

 

I limiti e le potenzialità della legge

Ecco dunque conclusa l’analisi del testo dell’articolo l-ter. Come ho cercato di evidenziare, nel testo vi sono luci ed ombre, splendori e pericoli, e molte delle possibilità di una applicazione corretta di tale legge stanno nella determinazione e nella capacità di “presenza attiva” delle persone con disabilità. Tutto questo ricordando un punto fondamentale, e cioè che gli interventi previsti in questo articolo della legge 162/98 rientrano nell’impianto generale della legge 104/92, il cui maggior difetto, a detta di molti, è di prevedere che gli Enti deputati “possono” e non “devono” attuare quanto la stessa legge contiene. Su questa distinzione molto è stato scritto. La mia personale opinione è che questo evidente limite possa in qualche modo costituire anche una risorsa. Il fatto che una Giunta o un Consiglio regionale “possano” concretizzare quanto la legge prevede può venire valutato da due punti di vista: il primo è quello per cui la “facoltà” del fare possa costituire un alibi per il non fare, con un giudizio che ovviamente non può che essere totalmente negativo; il secondo punto di vista, che preferisco, è la constatazione che ogni amministratore o politico negli enti locali e nelle regioni ha tutto l’interesse a impiegare i fondi che la legge mette a disposizione, e che se non lo fa o lo fa in modo errato occorre intervenire per sollecitarlo e se necessario per “combatterlo”. Quindi la “facoltà” di attivazione da parte della politica e della Pubblica Amministrazione diventa anche un pressante invito alle persone con disabilità e alle loro organizzazioni affinché vengano attivati tutti gli strumenti di pressione possibili. Occorre cioè imparare ad essere una lobby organizzata ed efficace (come avviene in Paesi con un sistema democratico più evoluto e più radicato) e far capire a chi ha la responsabilità della decisione che ogni suo atto verrà valutato e costituirà occasione per azioni di apprezzamento o di censura. L’applicazione corretta dell’articolo l-ter deve anche costituire uno strumento per il superamento della fase di sperimentazione delle procedure di gestione in forma “indiretta” dei servizi di assistenza personale. 1 fondi stanziati sono praticamente irrilevanti, ma se vogliamo passare, tanto per fare un esempio, da uno stanziamento di 60 a uno di 600 miliardi all’anno, cifra che ritengo ragionevolmente adeguata per iniziare a “fare sul serio”, occorre essere attrezzati per dimostrare nei fatti che il sistema della gestione “indiretta” per tanti aspetti funziona meglio di altri. Se saremo capaci di fare questo otterremo ascolto, altrimenti prevarranno ancora una volta gli esperti di briciole e nicchie. Sta a noi. Soprattutto a noi.

giugno 1999 – John Fischetti

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